mercoledì 3 febbraio 2010

UN' ECONOMIA DIVERSA

di Umberto Berardo
Che l’economia non fosse più governata dalle organizzazioni internazionali, dagli Stati e dalla politica lo sapevamo da tempo, così come ci è chiaro che essa rifiuta ogni norma etica, perché la sua stella polare è solo il profitto, il business come lo chiamano gli Americani.
I sistemi ed i luoghi di produzione, allora, il costo del lavoro e quello del prodotto finale, le regole del commercio ed il rapporto tra impresa ed operai devono tutti essere funzionali all’utile, perché appunto business is business.
La corsa agli affari è stata così prepotente che ci si è inventati quel capolavoro di immoralità che è la borsa, attraverso la quale si è arrivati ad escogitare un modo nuovo di fare soldi. Sì, perché moltissimi ormai hanno scoperto che con la speculazione sul valore delle azioni o peggio ancora sui derivati si possono avere guadagni molto più consistenti che con il lavoro, al quale si sono sostituite appunto le rendite, oltretutto scandalosamente meno tassate dei salari.
La mancanza di governance sull’economia genera ovviamente un mercato selvaggio di merci e capitali.
Assistiamo allora alla costituzione di aziende fantasma a mo’ di scatole cinesi, alla chiusura di industrie su un territorio ed al fenomeno della delocalizzazione, così come l’occupazione ed il lavoro vengono sacrificati sull’altare del mercato finanziario o con lo spostamento degli investimenti dalla produzione verso i servizi.
I risultati li vediamo in questi giorni all’Alcoa di Portovemse, allo stabilimento Fiat di Termini Imerese, alla Geomeccanica del polo industriale di Venafro o nelle campagne di Rosarno, solo ovviamente per fare qualche esempio della grave crisi occupazionale che attanaglia i lavoratori.
Chi poi ha un conto in banca tocca con mano l’assurdità attuale delle regole di mercato, quando si vede applicare a senso unico condizioni di tenuta conto che hanno davvero dell’incredibile con tassi d’interesse a credito, ad esempio, fissati in moltissimi casi allo 0,01000% e spese varie che lievitano progressivamente.
A questa carenza di governance e di assenza della presenza dello Stato sono dovuti poi fenomeni altrettanto o forse più gravi per la collettività come l’economia illegale, nera, sommersa o l’altra che molti definiscono grigia, perché in parte nascosta ed in parte visibile.
Il dodicesimo “Rapporto SOS Impresa” della Confesercenti ci dà i dati degli investimenti della criminalità organizzata nell’economia legale che hanno raggiunto addirittura un giro d’affari annuo di 135 miliardi di euro.
Oggi quello che preoccupa di più, comunque, è l’aumento della disoccupazione che in Italia vede il numero delle persone in cerca di lavoro pari a 2.138.000 unità.
In sostegno ai nuclei familiari in difficoltà ci sono gli ammortizzatori sociali e le iniziative di microcredito, di prestiti e di consulenza delle diocesi; si tratta, tuttavia, di toppe, mentre per risolvere il grave problema della crisi economica e della disoccupazione abbiamo bisogno di profonde riforme strutturali e di investimenti massicci nella ricerca tecnologica.
Domenica all’angelus la voce autorevole del Papa ha sollecitato imprenditori e manager a lavorare per l’occupazione, allargando lo sguardo oltre il profitto per dare dignità al lavoro, centralità all’uomo e funzione sociale al processo economico.
Giorni fa a Campobasso questi discorsi sono stati affrontati con una chiarezza invidiabile dall’economista Stefano Zamagni, il quale, facendo riferimenti alla “Caritas in veritate”, ha parlato dell’economia sociale e delle modalità in cui essa può essere attivata.
Lucidissimo eticamente, come non sempre avviene anche nelle prese di posizione della Chiesa al riguardo, il passaggio della sua relazione in cui ha sottolineato come la realizzazione dell’equità passa attraverso la giustizia commutativa, intesa a dare il giusto valore di scambio ai beni, a quella distributiva, capace di saper redistribuire equamente la ricchezza tra gli abitanti del pianeta, fino all’altra, definita contributiva, attraverso la quale ogni cittadino deve contribuire proporzionalmente come un dovere ai servizi sociali dello Stato.
Per uscire dalle logiche del puro profitto ed indirizzarci verso quella che abbiamo chiamata l’economia sociale abbiamo intanto necessità che si creino strutture economiche diverse dalle attuali ed orientate alla cooperazione o alla partecipazione proprietaria di base.
Noi pensiamo che mantenere alla base dell’economia una struttura di tipo capitalistico non garantisca la possibilità di creare equità nella società e siamo convinti che si debba lavorare per un processo sia di socializzazione dell’impresa che della gestione del commercio.
Qualcosa all’orizzonte si muove e tra i segnali incoraggianti vorremmo segnalare le banche etiche, le esperienze delle diverse cooperative sociali, come ad esempio quelle attuate da Libera, le imprese a finalità sociale ed il recentissimo progetto di una borsa sociale italiana, complementare a quella di Piazza Affari, in grado di scambiare titoli di imprese sociali e di attrarre investitori socialmente responsabili e capaci di orientare i loro risparmi in guadagni accettabili, ma non assurdamente speculativi.
Sempre il prof. Zamagni, presidente dell’Agenzia per le Onlus, ha definito quest’ultima idea un nuovo modello in grado di indurre l’uomo ad attività produttive senza portarlo verso l’egoismo.
Come si vede i segnali non mancano per invertire la tendenza di un’economia capitalistica capace di creare immense ricchezze per pochi e tanta povertà per i più.
Nel piccolo ciascuno di noi può aiutare a compiere passi in tale direzione per esempio con un rifiuto negli acquisti dei prodotti dell’economia nera o grigia, perché moralizzare il mercato è già un tassello importante verso la funzione sociale dell’impresa

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