mercoledì 4 maggio 2011

IL CNEL, A CHI SERVE ? : Un organo che costa venti milioni di euro l'anno a tutti noi e non serve assolutamente a niente. Ma che nessuno vuole abolire, perché i partiti ci mandano a svernare i loro boiardi a fine corsa



Una riunione del Cnel Duemilacentoquattro euro e 55 centesimi (lordi) al mese. Con l'unica incombenza, ogni trenta giorni, di una riunione dal titolo spesso pensoso, ma che solo raramente riesce a tagliare il traguardo dei centottanta minuti di durata: vuol dire che, in media, il tassametro scatta di 11,6 euro ogni 60 secondi. 
Titolari della fortunata rendita sono i 121 italiani che popolano il parlamentino del Cnel. L'acronimo sta per Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro, un
oggetto poco noto citato dai sussidiari con la definizione di organo di rilevanza costituzionale. Di fatto il Consiglio, il cui presidente sarebbe secondo alcune ardite interpretazioni la quarta carica dello Stato, non conta un fico secco e detiene da anni un'incontrastata leadership sull'affollato mercato nazionale dell'aria fritta. Gli acuminati pareri che dispensa a termini di statuto vengono ignorati con puntualità e, solo perché sempre elegantemente rilegati, finiscono a far bella mostra nelle librerie dei professori universitari. 
Quanto alle proposte di legge, in mezzo secolo i consiglieri ne hanno faticosamente messe a punto undici (alcune di portata storica, come quella sulle agevolazioni bancarie ai pescatori). Considerando che il Cnel brucia poco meno di 20 milioni di euro l'anno, si può calcolare che in media ciascuno degli elaborati sia costato alle tasche dei contribuenti qualcosa come 100 milioni. 
In compenso, nessuno ha mai tagliato il prestigioso traguardo dell'approvazione parlamentare. "C'è sempre una prima volta", ha detto tutto serio Antonio Marzano, tessera numero nove di Forza Italia e non indimenticato ministro delle Attività produttive, cui è toccata in sorte la presidenza del Cnel (con la relativa auto di servizio). Nella contabilità parlamentare le proposte con il timbro del Cnel sono molte meno di quelle che chiedevano l'abolizione del Consiglio. Massimo D'Alema, per esempio, ci si era messo di punta ai tempi della Bicamerale. E infatti la commissione ha chiuso i battenti e il Cnel sta sempre lì, a villa Lubin, un sontuoso edificio tutto scaloni, soffitti intarsiati e guide rosse nel cuore di villa Borghese, a Roma. Ma il leader del Pd non è stato certo l'unico a cercare di tagliare lo spreco (sia pure fornito di dignità costituzionale). Ha scolpito con involontario umorismo Marzano: "Si vede che diamo fastidio". E vai a capire a chi. 
Che il Cnel non fosse destinato a diventare una vera e propria macchina da guerra lo si era capito fin dall'inizio. Istituito nel 1948, è entrato in funzione solo dieci anni dopo, trasformandosi rapidamente in una riserva per burocrati rottamati dal pletorico sistema nazionale delle relazioni industriali, in testa ex leader sindacali e imprenditoriali. 
Il veterano è Raffaele Vanni, classe 1922, segretario della Uil negli anni in cui al festival di Sanremo trionfavano Johnny Dorelli e Domenico Modugno con "Nel blu dipinto di blu": s'è accomodato sul suo scranno alla prima consiliatura e non s'è mai più alzato. Ma della compagnia fa parte anche Emma Marcegaglia. Secondo alcuni, la presidentessa degli imprenditori (che, in quanto tale, per tradizione fa parte del Cnel come gli altri capi di sindacati e associazioni) ha partecipato solo alla prima seduta del nuovo Consiglio. Altri sono pronti a giurare d'averne intravista la spigolosa sagoma anche in una seconda occasione. E chissà se la signora dell'acciaio, alla testa di un gruppo che fattura qualcosa come 3,5 miliardi di euro, alla fine del mese manda l'autista a ritirare l'assegno (ridotto nel 2011 del 10 per cento, in nome dell'austerità decisa lo scorso anno dai parlamentari). Già, perche quello dei consiglieri del Cnel non è uno stipendio, ma è più simile a un appannaggio: spetta anche a chi non si presenta mai al lavoro e subisce come unica penale un taglio dell'importo pari al 15 per cento. Non esattamente un dramma per lady Confindustria.
Se la partenza non è stata proprio bruciante, non è che il Cnel abbia poi di troppo accelerato i tempi di marcia. Basta pensare che ogni cinque anni la procedura per il rinnovo del consiglio dura nove mesi e fa impallidire il ricordo del manuale Cencelli della politica. Il punto di partenza è una griglia compilata sulla base della rappresentatività delle diverse sigle e siglette del mondo imprenditoriale, sindacale, artigianale, professionale e chi più ne ha più ne metta. Poi si attende che gli scontenti della spartizione presentino ricorso al Tar e che i giudici mettano il loro sigillo sulle decisioni finali (nell'ultima tornata, nel 2010, s'è arrivati a un diluvio di carte bollate per l'assegnazione di una decina di poltrone su 121). Un posto nell'Eldorado del Cnel fa gola a tutti. Per i consiglieri, infatti, non c'è solo l'assegno mensile (che sale a 2.540 euro per i dodici presidenti di commissione e a 3.409 per i due vicepresidenti: tutti dotati di ufficio).Ogni volta che vengono a Roma per una riunione del consiglio o di uno dei suoi organi i non residenti hanno diritto a un rimborso spese. E in più ricevono un'indennità giornaliera di missione di 112,51 euro, decurtata del 30 per cento se presentano anche il conto di un albergo. Ma le cose potrebbero presto cambiare. In meglio, s'intende. Alta s'è infatti levata nei mesi scorsi la protesta dei consiglieri romani: l'indennità di missione la vogliono anche loro e alla fine, c'è da giurarci, l'avranno. Così come magari riusciranno a ottenere la cancellazione di quella norma del regolamento che ai più pare come un inutile eccesso di severità: le ricevute delle spese di viaggio, recita implacabile il secondo comma dell'articolo 3, devono portare la stessa data della riunione per la quale vengono esibite alla cassa. Il presidente, almeno moralmente, è certamente con i suoi: "Credo si possa tranquillamente convenire", ha proclamato di recente, "che le indennità dei consiglieri non sono una grande retribuzione a fronte del lavoro svolto". 
Non è un caso, ha proseguito senza tradire alcuna ilarità, se il Cnel è stato eletto alla presidenza dell'associazione che riunisce una settantina di analoghi organismi in tutto il mondo. Sarà senz'altro per questo che, più di recente e in base a una logica stringente, ha chiesto di rendere obbligatori i pareri non vincolanti del Cnel al Parlamento.
Sul bilancio di villa Lubin, che dallo Stato incassa come dotazione ordinaria 18 milioni e 270 mila euro, vigila un collegio di tre revisori dei conti. Detta così, sembra quasi una cosa seria. Non lo è: i sedicenti occhiuti controllori altro non sono che componenti di quello stesso consiglio alle cui spese dovrebbero fare le pulci. Così, dentro ai conti del Cnel c'è di tutto e di più. Presidente, vice e consiglieri costano 3 milioni e 326 mila euro di gettoni di presenza, ma poi spendono un milione e 300 mila euro per i viaggi e altri 270 mila quando vengono scorrazzati con il cappello di delegati del Consiglio. Ma non basta: 350 mila euro sono in bilancio alla voce "spese per l'attività degli organi collegiali e di programma", che non si capisce a chi possa riferirsi se non alla solita pletora di consiglieri. 
I quali nella sonnacchiosa villa combattono la noia tenendosi ben informati sui fatti della cosiddetta società civile (65 mila euro di giornali fa quasi 180 euro al giorno, capodanno e ferragosto compresi) e nel tempo libero dispensano consulenze a destra e a manca: 335 mila euro sono a budget per "incarichi temporanei a esperti" e 34.750 (in crescita del 73,75 per cento) risultano stanziati per "spese relative a collaborazioni". E chissà qual è la differenza. 
Se i consiglieri non si fanno mancare proprio niente i dipendenti, che pure hanno il contratto bloccato, non sono da meno. In una settantina costano di soli stipendi 3 milioni e 25 mila euro, cui vanno sommati 256 mila euro in ticket restaurant (più 39,32 per cento rispetto al 2010), 676.419 euro per il Fondo di risultato e le indennità dirigenziali e 292 mila euro tondi di straordinari. E qui dev'essere proprio che i revisori si sono distratti. Sì, perché il pagamento delle ore di lavoro extra contrattuali non si concilia granché con l'assenteismo. Che a villa Lubin raggiunge vette da Guinness dei primati.
Prendiamo, ad esempio, gli uffici del segretariato: a dicembre del 2010 il tasso di assenze era pari in media al 21,16 per cento, con un picco del 25,61 per cento al dipartimento per l'attuazione del programma. Sarà che il programma in questione proprio non c'è; fatto sta che al Cnel hanno inventato la settimana cortissima. 
Ha detto una volta Sergio Larizza, l'ex segretario della Uil che è stato anche capintesta a villa Lubin: "Al Cnel serve una cosa sola: essere frequentato". Ecco. Il totale generale delle entrate ammonta, nel bilancio del 2011, a 20 milioni 719.248 euro e 78 centesimi. Nello stesso documento è scritto che le spese di funzionamento raggiungeranno i 10 milioni 657.544 euro e 60 centesimi. Vuol dire che un po' più del 51 per cento delle uscite del Cnel serve per mantenere in vita il consiglio stesso. E' un conto semplice. Non per Marzano, però, che davanti al pallottoliere e a dispetto del titolo di economista di cui si fregia è andato completamente in tilt. "Dai miei calcoli, solo il 25 per cento serve a far funzionare la macchina", ha detto il 21 gennaio 2007 a "La Stampa". "Solo il 30,28 per cento del bilancio del Cnel è effettivamente destinato a far girare la macchina", ha dettato neanche quattro mesi dopo ("Corriere Economia", 7 maggio 2007) correggendosi vistosamente e, quel che è peggio, sbagliando di nuovo.Del resto, per essere nominati consiglieri del Cnel non è necessario un curriculum da scienziati. Il requisito richiesto (articolo 8 della legge numero 936 del 1986) è uno solo: il godimento dei diritti civili e politici. Il risultato s'è visto lo scorso 10 marzo. Quel giorno il consiglio, invocando paradossalmente una riduzione dei costi della politica, ha approvato (all'unanimità, per giunta) un comunicato. C'era scritto che negli ultimi dieci anni la crescita del prodotto interno lordo italiano era stata del 157 per cento (molto meglio, dunque, di quella cinese, ferma a quota 105). Quei tirchi del Fondo monetario internazionale ci avevano invece accreditato di uno striminzito 24,7 per cento. Non è davvero difficile indovinare chi avesse ragione.

di Stefano Livadiotti da l'Espresso del 03/05/2011

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